Tutte le donne di Prassagora

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Pride and Prejudice, Jane Austen

venerdì 7 novembre 2014

Riflessioni sulle ricadute del D.D.L. in materia di consenso informato sulla legislazione in materia di Ads


A seguito della presentazione del D.D.L. relativo alle disposizioni in materia di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario, si pone l’interrogativo in merito alle ricadute del suddetto testo normativo sulla legislazione in materia di Amministrazione di sostegno, introdotta nel nostro ordinamento a seguito della l. 9 gennaio 2004, n. 6. 


Le riflessioni più immediate ad una prima lettura del testo del Disegno di Legge così come approvato dal Senato il 26 marzo 2009 si appuntano sulla definizione della vita umana come diritto non solo inviolabile ma anche indisponibile, qualificazione che porta con sè una concezione teocratica delle Istituzioni in palese conflitto con la Costituzione (artt. 2, 3, 13, 19, 32), da sempre tesa a una concezione laica di rispetto dell’autodeterminazione dell’individuo. L’art. 1 della summenzionata legge prosegue stabilendo il principio per cui “la salute deve essere tutelata come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Questa parificazione dei due diritti non regge a fronte di una corretta lettura dell’art. 32 Cost. quale effettuata da una giurisprudenza super consolidata sia della Cassazione che della Corte Costituzionale che individua nel concetto dell’autodeterminazione propria del primo una pregnanza tale da relegare il secondo in posizione subordinata; con la conseguenza che, alla concezione teocratica delle Istituzioni, si affianca quella etica denegata anch’essa dal dettato costituzionale (art. 3 e 19).

Gli intenti sottostanti a questo Disegno di Legge, a mio avviso, appaiono mirati ad accontentare la componente cattolico-clericale fondamentalista dell’elettorato, approvando una legge su un tema etico tanto caro alla Chiesa cattolica e a costo zero per il Governo e ben lungi dall’obiettivo di protezione dei soggetti deboli perseguito dalla legge sull’amministrazione di sostegno: la quale, secondo l’immagine offerta da Paolo Cendon, mira a costituire un “regime di protezione” tale da comprimere al minimo i diritti e le possibilità di iniziativa della persona disabile e da offrire, però, tutti gli strumenti di assistenza o di sostituzione che possano occorrere do volta in volta per colmare i momenti più o meno lunghi di crisi, di inerzia, di inettitudine del disabile stesso.


Sulla base di un’analisi letterale del testo, si evince il riferimento all’amministratore di sostegno solo all’art. 2 comma 6 che statuisce come il consenso al trattamento sanitario spetti a quest’ultimo; tuttavia il comma prosegue precisando che la decisione di tali soggetti riguarda quanto è consentito dall’art. 3 ed è adottata avendo come scopo esclusivo la salvaguardia della salute psico-fisica dell’incapace.


Il summenzionato art. 3, intitolato “contenuti e limiti della dichiarazione anticipata di trattamento”, ai  commi 3 e 4 indica i trattamenti sanitari a cui il soggetto dichiarante è legittimato a rinunciare, consistenti in trattamenti di carattere sproporzionato, futili, sperimentali, altamente invasivi o altamente invalidanti o che abbiano, anche a giudizio medico, un potenziale carattere di accanimento terapeutico.


Al comma 5 vengono invece riportati i trattamenti non inseribili nella dichiarazione anticipata di trattamento, come indicazioni che integrino i delitti di eutanasia, omicidio del consenziente e di assistenza o aiuto al suicidio. Non vengono definiti i contenuti di eutanasia ma sembrerebbe di capire che tutto sia rapportabile alle norme penali citate (artt. 575, 579 e 580 c.p.), con l’esclusiva eccezione dei “trattamenti straordinari, non efficaci o non tecnicamente adeguati” che il medico può escludere di praticare nelle situazioni “di fine vita o … di morte prevista imminente” (art. 1, lett. f)


Sembra dedursi che, fatta salva l’eccezione appena ricordata, qualsiasi pratica sanitaria non qualificabile come “straordinaria” sia penalmente sanzionabile per il medico che si trovi di fronte alle situazioni di “fine vita” ovvero alla “morte imminente”.


Al comma 6 è riportato il comma su cui si è più acceso il dibattito parlamentare, anche a causa delle recenti vicende in merito come il noto caso Englaro: si afferma che l’alimentazione e l’idratazione nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, sono forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze fino alla fine della vita, le quali non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento. Il summenzionato comma definisce alimentazione e idratazione come “forme fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze fino alla fine della vita”. 
Questa espressione, come rilevato dal Giudice Stanzani, viene a risultare umoristica nella formulazione in quanto nel caso del malato terminale, parlare di “forme…finalizzate ad alleviare le sofferenze” così da procrastinarne il momento finale sembra quasi una macabra irrisione.


Per non parlare dell’art. 4 comma 6, il quale statuisce che le dichiarazioni anticipate di trattamento non si applicano in condizioni di urgenza o quando il soggetto versa in pericolo di vita immediato”. D’altro canto l’art. 7 comma 1 demanda al medico il potere discrezionale, seppure con obbligo di motivazione, “di seguirle o meno”.


In conclusione la logica suggerisce di desumere che se è vero che le uniche dichiarazioni anticipate lecite sono quelle che hanno ad oggetto l’esclusione dei “trattamenti sanitari…di carattere sproporzionato o sperimentale e se è vero che nei casi enunciati negli artt. 4 comma 6 e 7 comma 1, le stesse dichiarazioni anticipate non si applicano e il medico può, sempre e comunque disattenderle, è anche necessariamente vera la conclusione che in tutte queste situazioni il sanitario sarà autorizzato a praticare terapie “sproporzionate” o “sperimentali”.


 Tutto questo appare evidente solo limitandosi a un’analisi basata sul dato letterale della norma. Passando al concreto viene da interrogarsi su come potrà il paziente ancora autonomo affetto da un cancro cui il medico prescrive un intervento chirurgico urgente evitare l’intervento se non intende sottoporvisi; essendo ancora autonomo fisicamente avrà la fortuna di potersi allontanare con le proprie gambe e la sua autodeterminazione sarà rispettata. Ma nel caso la persona ancora cosciente si trovi immobilizzata su un letto, potrà impedire al medico di essere sottoposta alla PEG?Stando a quanto si evince dal testo pare proprio di no.


In conclusione si può affermare concordando con il Giudice Stanzani che:


1)    l’eventuale legge vieta alla radice ogni forma di testamento biologico propriamente detto;


2)    giunge al ridicolo consentendo al medico di praticare trattamenti sanitari sproporzionati e sperimentali:


3)    annulla cinquant’anni di elaborazioni delle corti superiori in tema di consenso informato e addirittura pretende di annullare gli artt. 2, 3, 13 e 32 della Costituzione nel nome di una espansione, oltre ogni limite consentito, dell’art. 19 della Carta;


4)    per quanto riguarda specificamente il problema del raccordo tra questo D.D.L. e la l. 6/2004, il primo pare annullare alcuni degli obiettivi cui mirava l’istituto dell’amministrazione di sostegno, per cui se si compirà l’iter parlamentare di questa legge non sarà più possibile per l’interessato che designerà un amministratore di sostegno attribuirgli il potere di negare il consenso ai trattamenti medici salvavita che l’interessato ha espressamente dichiarato di rifiutare e di richiedere ai medici l’applicazione delle cure palliative più efficaci nel caso queste abbrevino la vita del suddetto soggetto pur recandogli sollievo dalle sofferenze. Ed è quasi una beffa la constatazione che nel testo del suddetto D.D.L. alimentazione e idratazione sono definite forme fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze fino alla fine della vita.


5)    L’autodeterminazione dell’individuo viene relegata a uno spazio marginale, senza possibilità di libero arbitrio nella scelta di quali trattamenti sanitari accettare e questo per compiacere un pensiero religioso condiviso solo da una parte della popolazione, imponendo questa concezione di indisponibilità della vita a tutti gli altri; e anche nello spazio angusto lasciato alla libertà di sottoscrivere le cosiddette “dichiarazioni anticipate” sarà sempre facoltà del medico rispettarle o disattenderle in quanto è a quest’ultimo che il testo del D.D.L. lascia in ultima analisi l’ultima parola in merito. 
    
Nella pratica viene per lo più a vanificarsi l’utilità di dette dichiarazioni e si nega a tutta una serie di soggetti versanti in condizioni di grave malattia e sofferenza la dignità umana di scegliere come vivere. Un punto fermo dev’essere posto: la richiesta di non essere sottoposto a terapie o di sospendere quelle già intraprese non ha nulla a che vedere con l’eutanasia, vale a dire con la richiesta da parte di un malato senza speranza, afflitto da intollerabili sofferenze, di porre fine alla propria vita mediante la somministrazione di un farmaco letale. E tanto meno con il suicidio.

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