Cassazione civile Sentenza, Sez. I, 11/11/2014, n. 24001
Il caso
Una coppia di coniugi italiani ottiene in Ucraina l’atto di nascita di
un figlio, che si assume essere stato concepito tramite il ricorso alla
maternità surrogata. Nella pendenza di un procedimento penale per il
contestato reato di alterazione di stato, sospettandosi la non
veridicità della dichiarazione di nascita, la Procura minorile chiede
dichiararsi lo stato di abbandono del bimbo.
La decisione della Corte di Cassazione
Il Tribunale per i minorenni, con sentenza confermata in sede di
gravame, dichiara lo stato di abbandono del bambino, collocato nel
frattempo presso una coppia fra quelle dichiarate idonee all’adozione
nazionale, essendo emerso nel corso nel giudizio che il bambino, sotto
l’aspetto genetico, non era figlio di coloro che formalmente ne
risultavano genitori. La Corte di Cassazione conferma a sua volta la
decisione impugnata, sviluppando diverse considerazioni in ordine alla
pratica della maternità per surrogazione.
La maternità surrogata in Italia e all’estero
La decisione stimola alcune riflessioni. Come è noto, l’art. 12 comma
sesto della l. 40/2004 sanziona penalmente chiunque realizza “in
qualsiasi forma” la surrogazione di maternità, ossia ricorre a tecniche
di riproduzione con le quali una donna porta a termine una gravidanza
per conto di un’altra (e dunque accetta l’inserimento in utero di un
embrione formato in vitro con un proprio ovocita, ovvero di altra
donna), cui consegnerà il nato, in modo che risulti figlio della
committente.
Si tratta, in buona sostanza, di quello che viene
chiamato, in maniera del tutto atecnica, “utero in affitto”. Il divieto
della surrogazione di maternità, nel nostro ordinamento, si ricollega al
disposto dell’art. 263 comma terzo c.c. (rimasto inalterato anche dopo
la recente riforma sulla filiazione), in base al quale madre è colei che
partorisce. Non è dunque possibile l’attribuzione della maternità a
donna differente da colei cha ha partorito, e ciò pure nell’ipotesi in
cui il nato non sia geneticamente figlio della medesima: d’obbligo
richiamare quanto deciso, in sede cautelare, da una recente ordinanza
molto nota, resa nella dolorosa vicenda dello scambio di embrioni tra
due coppie, che si erano entrambe risolte ad un’inseminazione
artificiale di tipo omologo.
Il divieto di surrogazione di maternità è rimasto
inalterato, pur a seguito della sentenza della Corte costituzionale n.
162 del 2014: la Consulta infatti ha dichiarato illegittimo il solo
divieto di fecondazione eterologa, di cui all’art. 4 comma terzo l.
40/2004, rendendo così possibile, anche in Italia, alla donna sterile di
avere una gravidanza tramite donazione di ovocita di altra donna,
fecondato con lo spermatozoo del proprio marito o partner. In questo
caso, nell’atto di nascita verrà correttamente indicata come madre
colei che ha partorito, pur in difetto di un qualsiasi legame di tipo
genetico con il nato.
Alcuni Paesi,
contrariamente all’Italia, ammettono invece la surrogazione di maternità
(basti pensare all’Ucraina, cui si fa riferimento nella sentenza in
esame, all’India, ma pure al Regno Unito), disciplinando in modo preciso
il contenuto dell’accordo negoziale, in forza del quale viene eseguito
l’intervento, con conseguenziale formazione dell’atto di nascita, in
favore della madre committente.
Il riconoscimento in Italia di atti di nascita per maternità surrogata all’estero
In questi ultimi anni diverse coppie italiane si sono rivolte
all’estero per avere un figlio tramite la tecnica della surrogazione di
maternità. I problemi sono sorti, al momento del rientro in Italia,
quando è stata richiesta la trascrizione dell’atto di nascita formato
in quei Paesi.
Sotto il profilo strettamente penale, si è per lo più
correttamente esclusa la ricorrenza della fattispecie dell’alterazione
di stato, essendo l’atto di nascita regolarmente formato all’estero,
secondo la legge locale; talune pronunce hanno semmai ravvisato gli
estremi del più lieve reato della falsa dichiarazione all’ufficiale
dello stato civile, mentre altre hanno escluso la rilevanza penale
della condotta.
Dal punto di vista
più strettamente civilistico, si sono prospettate varie possibili
situazioni: in primis, richiedere la nomina di curatore speciale al
minore, perché esercitasse l’azione di contestazione, ovvero
l’impugnazione del riconoscimento (qualora la madre committente non
fosse stata sposata).
Vero è però che lo status di figlio della madre
committente è stato acquisito legittimamente all’estero, in forza di una
tecnica che di per sé presuppone l'insussistenza di un legame
genetico; come è noto l’art. 18 del dpr 396/2000 esclude che gli atti
formati all’estero possano essere trascritti in Italia se contrari
all’ordine pubblico. Se anche, come osserva la Cassazione, il divieto di
dar corso a tecniche di maternità surrogata appartiene all’ordine
pubblico, esso peraltro dovrebbe ritenersi operativo solo in relazione a
condotte tenute nello Stato italiano penalmente perseguibili.
Altrettanto non pare possa dirsi per gli atti formati all’estero, in
conformità alla legislazione locale (cfr. al riguardo Trib. Napoli 1°
luglio 2011, in Corr. merito 2012,!,13). Del resto, l’esercizio
dell’azione di status sarebbe poco appagante, là dove non sia
contestato che il figlio, proprio in quanto nato da surrogazione di
maternità, non appartiene biologicamente alla madre sociale. In altre
occasioni, sono stati pure aperti procedimenti de potestate ex art. 333
c.c., ma anche ex art. 8 ss l. 184/1983, per la declaratoria dello stato
di adottabilità, talora definitisi con un provvedimento di non luogo a
provvedere, attesa l’indubbia capacità genitoriale della coppia, pur a
fronte di una nascita in modo differente dall’usuale (cfr. ad es. Trib.
min. Milano 1° agosto 2012 e 6 settembre 2012, entrambi in Nuova giur. civ. 2013,I,712).
Anche nel caso di specie si è aperto un procedimento, volto alla
declaratoria di stato di adottabilità del bambino. La peculiarità della
fattispecie osta peraltro alla formulazione di regole generali (ed in
questo senso la decisione annotata suscita qualche perplessità). Risulta
infatti che la coppia (relativamente avanti negli anni), che si era
risolta in Ucraina alla surrogazione di maternità, avesse visto già
respinta per ben tre volte una domanda di adozione “per grosse
difficoltà nell’elaborazione di una sana genitorialità adottiva”; per di
più non solo la moglie, ma nemmeno il marito era legato da un rapporto
genetico con il figlio, come confermato da una consulenza tecnica,
licenziata nel corso del procedimento.
La decisione in commento
Come già anticipato, la surrogazione di maternità (che il
nostro legislatore vieta) può essere effettuata, utilizzando un ovocita
della futura gestante, ma anche di una donna terza: in questo secondo
caso, può prospettarsi, sotto il profilo fenomenologico, la
contemporanea configurabilità di tre “madri”: quella committente (o
sociale), quella genetica e quella portante.
Nella specie, a quanto
risulta dalla sentenza in esame, sarebbe stata violata la stessa legge
ucraina (ossia la legge del luogo, ove era nato il bambino ed era stato
formato l’atto di nascita quale figlio della coppia committente).
Detta
legge, rileva la Suprema Corte, richiede infatti che il 50% del
patrimonio genetico del nato sia riferibile a coloro che, nell’atto di
nascita sono indicati come genitori. Come anticipato, nemmeno il marito
della madre committente era però padre del bimbo, il cui status non
corrisponde affatto a quello indicato nell’atto di nascita, in relazione
ad entrambe le figure genitoriali (e ciò a prescindere dagli esiti del
procedimento penale pendente per il reato di alterazione di stato).
Dunque, proprio in relazione al caso specifico, può giustificarsi
l’affermazione della sentenza in esame per la quale l’ordinamento
italiano affida all’istituto dell’adozione “realizzata con le garanzie
proprie del procedimento giurisdizionale piuttosto che all’accordo delle
parti, la realizzazione di una genitorialità disgiunta dal legame
biologico”.
Le medesime affermazioni
non paiono invece poter essere estese alle nascite a seguito di
maternità surrogata, in forza di accordi validi ed efficaci, secondo la
legge del luogo ove si è formato l’atto di nascita. L’assolutezza del
principio affermato dalla Suprema Corte (per cui “il divieto di
pratiche di surrogazione di maternità è certamente di ordine pubblico,
come suggerisce già la previsione della sanzione penale, di regola posta
appunto a presidio di beni giuridici fondamentali”, quali, “la dignità umana –costituzionalmente tutelata della gestante e l’istituto dell’adozione”) non pare possa ostare al riconoscimento dello status filiationis,
acquisito legittimamente all’estero, certamente in quelle situazioni in
un figlio sia geneticamente del marito (o del partner) della donna
committente.
A fortiori, quando uno dei componenti la coppia genitoriale
sia biologicamente legato al figlio, non potrebbe di per sé
configurarsi stato di abbandono, quando il minore goda di un ambiente
familiare idoneo alla sua crescita nel nucleo del padre e della moglie
(o compagna) che abbia condiviso il progetto di genitorialità tramite
la maternità per surrogazione.
Del
resto, la stessa Corte EDU, con due recenti decisioni, emesse il 26
giugno 2014 nei confronti della Francia aveva condannato lo Stato
transalpino al risarcimento patito dai figli di due coppie francesi
coniugate, nati in America con il ricorso alla maternità surrogata, i
cui atti nascita non erano stati trascritti, stante la nullità, in
quell’ordinamento, dei contratti relativi a detto tipo di maternità (e
ciò pur essendo indubbia la paternità biologica del marito della madre
committente).
Osserva correttamente la Cassazione, che la CEDU ha
rilevato come debba essere lasciato agli Stati un ampio margine di
appezzamento nel prendere decisioni in ordine alla maternità surrogata,
in considerazione delle complesse questioni etiche sottese alla materia,
tenuto pure conto della mancanza di una legislazione omogenea in
Europa. La Corte ha nel contempo evidenziato la
necessità di tener adeguato conto la tutela del diritto alla vita
privata e familiare dei figli minori, configurandosi nella specie,
violazione dell’art. 8 CEDU.
L'ordinamento
italiano, per il quale madre è colei che partorisce (art. 269 comma
terzo c.c.) contiene, all'art. 12 comma sesto della l. 40/2004, un
espresso divieto della surrogazione di maternità, ossia della pratica
per cui una donna si presta ad avere una gravidanza e a partorire un
figlio per un'altra donna.
Il divieto, la cui violazione è penalmente
sanzionata, è ispirato al rispetto dell'ordine pubblico, venendo in
rilievo la dignità umana della gestante e l'istituto dell'adozione, con
il quale la surrogazione di maternità si pone oggettivamente in
conflitto.
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Bibliografia:
Alberto Figone, Il Quotidiano Giuridico, http://www.quotidianogiuridico.it
Gazzetta Ufficiale, Cassazione civile Sentenza, Sez. I, 11/11/2014, n. 24001
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