Tutte le donne di Prassagora

Tutte le donne di Prassagora
Pride and Prejudice, Jane Austen

martedì 27 ottobre 2015

Entro il 2020 un piano per la Scuola Digitale



Oggi 27 ottobre è stato presentato al MIUR il Piano nazionale per la Scuola Digitale, articolato su tre livelli: formazione, infrastrutture e contenuti.

Saranno stanziati fondi pari a un miliardo di euro in cinque anni per “riposizionare il modello educativo nazionale all'interno di una società che ha il digitale come elemento pervasivo” con una strategia complessiva che “è un piano di innovazione non solo infrastrutturale, ma anche di contenuti”. 

Questo è il quadro del Piano nazionale scuola digitale presentato dal ministro dell’Istruzione Stefania Giannini con l’obiettivo di riportare il sistema scolastico italiano al livello degli altri paesi sviluppati, colmando il gap che oggi emerge da tutte le statistiche internazionali. 


Il piano prevede una serie di azioni concrete che pongono “la digitalizzazione della scuola all’interno di una strategia complessiva del Governo per il rilancio del sistema paese”.
Adeguare le infrastrutture portando la fibra ottica e la banda ultralarga negli istituti, formare i docenti all'utilizzo delle competenze digitali, affrontare i temi di sicurezza, privacy e cyberbullismo  e curare il raccordo tra scuola e imprese, sono solo alcune delle azioni previste dal piano, che puntano a una ponderata educazione digitale in cui il modello educativo sia incentrato sullo studente che diventa soggetto attivo nell'interazione con il docente. Tra le innovazioni viene previsto l'obiettivo di portare il coding a tutta la scuola primaria e l'istituzione di un Osservatorio tecnologico presso il Miur per il monitoraggio dell'evoluzione del piano per le eventuali rimodulazioni in corso d'opera.

Per la “formazione in servizio per l'innovazione didattica e organizzativa” sono previste risorse di 10 milioni di euro l'anno da investire nell'arco del quinquennio. Lo scopo è fare in modo che anche il docente più estraneo alle nuove tecnologie acquisisca competenze digitali, richieste per insegnare alle generazioni di studenti "nativi digitali".
Mille tra professori e presidi verranno scelti per seguire corsi in qualche università straniera che eccelle in materia di digitalizzazione nell'estate 2016.

Duemila saranno invece quelli che avranno un ruolo di guru tecnologico, in qualità di Responsabili Digitali, coloro che avranno il compito di attivare  le politiche innovative del piano coinvolgendo colleghi, studenti e famiglie, coordinandosi con le reti e le eccellenze, per una messa a sistema delle buone pratiche già esistenti.

Questo piano si pone l'ambizioso obiettivo di adeguare entro il 2020 la Scuola a una società profondamente mutata dallo sviluppo delle nuove tecnologie e di adeguarla ai tempi odierni, per poter corrispondere alle esigenze attuali del mondo del lavoro a cui si preparano i ragazzi.
Su L'Unità ne parla la deputata Anna Ascani che sul tema Scuola e digitale si è spesa: http://www.unita.tv/opinioni/cosi-la-scuola-diventa-digitale-e-sapra-parlare-meglio-ai-ragazzi/

giovedì 15 ottobre 2015

Alcune riflessioni sul fine vita dopo la legalizzazione dell'Eutanasia in California


Anche la California ha approvato una legge sul suicidio assistito.
Lo scorso 5 ottobre il cattolico governatore della California, Jerry Brown, ha firmato il provvedimento con cui viene legalizzata l’eutanasia anche nello stato americano da lui governato. Il provvedimento entrerà in vigore a partire dal prossimo 1 gennaio 2016.
Il governatore cattolico Jerry Brown ha deciso di firmare la legge nonostante l’opposizione della chiesa cattolica a tale pratica.
Ha affermato che «Un’opzione che può essere un conforto è un diritto». Brown da giovane aveva studiato in un seminario gesuita, spiegando di aver a lungo ponderato questa difficile decisione alla luce delle sue convinzioni religiose, ha ritenuto di dover firmare la legge:
«Alla fine ho cercato di pensare cosa avrei voluto in caso di una mia malattia terminale - ha dichiarato il democratico  - Non so cosa io farei se mi trovassi a morire tra dolori prolungati e strazianti. Sono certo, comunque, che mi sarebbe di conforto poter valutare l’opzione offerta da questa legge. E quindi non vorrei negare agli altri questo diritto».

Una volta entrata effettivamente in vigore, la legge permetterà ai medici di prescrivere ai malati terminali adulti ed in pieno possesso delle loro facoltà mentali dosi di farmaci per provocare una "morte dolce".

La legge è stata redatta sul modello di quella entrata in vigore nel 1997 in Oregon, il primo dei cinque Stati americani che hanno legalizzato il suicidio assistito, dove lo scorso anno 105 malati terminali si sono suicidati usando i farmaci prescritti dai loro medici. Lo stesso Stato dove si era rifugiata anche Brittany Maynard, la ragazza di 29 anni che chiedeva alla California di poter di morire con dignità. Era, secondo le statistiche, il malato terminale numero 1174 ad avere ottenuto l’autorizzazione al suicidio assistito. E il malato numero 753 a essere andato fino in fondo.

La firma di Brown mette fine a un appassionato dibattito che si è acceso in California intorno all’ "End of Life Option Act". «Questo è un giorno triste per la California» è stata la dichiarazione di Tim Rosales, portavoce dell’associazione Californians Against Assisted Suicide, che ha visto la partecipazione di medici, gruppi per la difesa dei disabili e gruppi cattolici mobilitati contro la legge. Riferendosi al fatto che Brown ha giustificato la sua decisione pensando ad una sua ipotetica esperienza personale, Rosales ha ricordato che «l’ambiente da cui proviene il governatore è molto diverso da quello di milioni di californiani che vivono in povertà, senza lo stesso accesso alle cure mediche: queste persone e i loro familiari potrebbero rischiare se ai medici venisse dato il potere di prescrivere loro dosi letali di medicinali».

Con la California salgono a cinque gli Stati USA in cui è possibile praticare il suicidio assistito. Gli altri Stati sono: Washington, Oregon, Vermont e Montana.
La decisione della California di votare favorevolmente per l’introduzione del suicidio assistito (termine con cui si intende l’aiuto medico ed amministrativo portato ad un soggetto che ha deciso di morire tramite suicidio) è stata probabilmente raggiunta anche grazie al sostegno profuso per la causa da Brittany Maynard che, per porre fine alle proprie sofferenze, fu costretta a trasferirsi dalla California all’Oregon alla fine dello scorso anno. 
La ragazza, prima di portare a termine la propria scelta, lanciò un appello al mondo, sostenendo che il suo non era un suicidio volontario, ma solo una scelta consapevole per evitare ulteriori sofferenze determinate dall’avanzare del cancro che la stava lentamente uccidendo.


Dichiarazioni del genere avrebbero dovuto far riflettere, anche ben oltre i confini dello stato di provenienza di Brittany.
Il Vaticano non tardò a condannare il gesto della giovane, definendolo “indegno”.

In Italia molti ricorderanno la vicenda di Piergiorgio Welby, militante del Partito Radicale e vice presidente dell’Associazione Luca Coscioni.
Il c.d. caso Welby balzò alle cronache negli ultimi anni della sua vita quando, gravemente malato, chiese che venisse “staccata la spina”, ovvero l’interruzione delle terapie che continuavano a tenerlo in vita.
L’esperienza di Welby è lucidamente raccontata nell’autobiografia “Lasciatemi morire”. Quando alla fine del 2006 Welby riuscì finalmente ad ottenere "la dolce morte", dopo una difficile battaglia legale, il Vaticano gli negò il funerale cattolico, esprimendo una chiara condanna verso la scelta che era stata compiuta.


Il tema del fine vita è una questione oltremodo delicata che tocca le nostre coscienze.
A sommesso avviso di chi scrive, ciò che deve sempre essere al centro di qualsiasi legge che venga ad essere proposta e approvata sul tema, deve essere il benessere del paziente.

Credo che sia questo il minimo comune denominatore nella redazione di una legge sul fine vita.
Perché anche di questo tema si deve parlare. 
Non possiamo negare il fatto che di questi tempi malattie invalidanti, incurabili ed estremamente dolorose come il cancro, siano diventati un'ombra nefasta nella vita di molte famiglie. 
La convinzione che la vita sia un diritto indisponibile, che sia o meno derivante da motivi religiosi, non può non tenere conto del benessere psicofisico del malato.

Ciò che spesso si tace, tuttavia, è che l'eutanasia corre il rischio di risultare una via di facile risparmio economico per gli Stati che sono erogatori delle cure sanitarie.

L'Eutanasia in Europa
Purtroppo le terapie che leniscono il dolore più efficaci e che renderebbero l'accompagnamento del paziente verso la fine dell'esistenza non doloroso, le c.d. cure palliative  hanno costi elevati che gli Stati dovrebbero accollarsi, e che se lasciati sulle spalle delle famiglie rischierebbero di sfociare nella soluzione di convincere il malato a chiedere l'eutanasia.


Ritengo sia giusto avere una legge sul testamento biologico, contro l'accanimento terapeutico, da un lato, ma che all'altro si possano e si debbano incentivare molto di più le terapie del dolore, che permettano di togliere uno dei principali motivi per cui il malato chiede l'eutanasia: la sofferenza e il dolore fisico.

giovedì 1 ottobre 2015

Free the Nipple: liberiamo il capezzolo!

Secondo l’American Psychiatric Associationil bambino americano medio prima di arrivare ai 18 anni vede più di 200.000 atti di violenza e 16.000 omicidi in TV. Ma sapete qual’è  l’immagine considerata troppo scandalosa e “dannosa” per i loro occhi? I capezzoli delle donne.
Negli Stati Uniti è illegale per le donne apparire in topless in tre stati e, secondo il Time, leggi ambigue lo proibiscono di fatto negli altri stati. 

Dal 2012 l’attivista e filmmaker Lina Esco sta conducendo una guerra contro questo doppio standard sessista secondo il quale sarebbe scandaloso unicamente il capezzolo femminile. Tre anni fa Lina ha infatti lanciato un movimento contro le politiche di nudità pubblico-sessiste chiamato “Free the Nipple, tradotto alla lettera “liberiamo il capezzolo“, e lo ha fatto mentre lavorava su un film con lo stesso nome e oggetto.

Allison Rapson, Casey LaBow, Lina Esco, e Kassidy Brown
Allison Rapson, Casey LaBow, Lina Esco, e Kassidy Brown 

Come la Esco ha dichiarato in un articolo nel 2013 apparso sull’Huffington Post, “siamo in un caso in cui è la vita che imita l’arte – o più precisamente, mi piace pensare, è attraverso l’arte che si catalizza l’azione civica civile, le donne in topless, gruppi di attivisti e artisti di graffiti hanno iniziato ad agire a New York City, a condurre una guerra culturale per la nostra libertà”.
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Free the Nipple, il film

Che cosa hanno ottenuto finora Lina Esco e gli aderenti a questo movimento? I capezzoli erano un tabù per i social media: nel 2014, Facebook ha  revocato il divieto sulle immagini dell’allattamento al seno, ma non è riuscito ad estendere la stessa politica al fine di consentire le immagini dei capezzoli delle donne in altri contesti.

“Quando ho iniziato la mia campagna online, Facebook e Instagram avevano vietato le foto di donne in topless più velocemente di quanto noi potremmo pubblicarle”, ha scritto Lina Esco nel 2013. 

“Perché si possono mostrare decapitazioni pubbliche in Arabia Saudita su Facebook, ma non un capezzolo? Perché si possono vendere pistole su Instagram, ma tuttavia viene sospeso il tuo account per aver pubblicato la parte più naturale del corpo di una donna?”

La scrittrice femminista e attivista Soraya Chemaly ha guidato una campagna che ha portato i partecipanti ad inviare oltre 60.000 tweet e 5.000 messaggi di posta elettronica per opporsi a questa iniquità di trattamento delle immagini sui social.  
“Il problema non sono i seni delle donne”, dichiara la Chemaly a Mic“è l’oggettivazione sessuale ad esserlo. C’è una differenza sostanziale tra la sessualizzazione e la sessualità. I seni non fanno male ai bambini, i seni li nutrono ed è la sessualizzazione del corpo delle donne che in realtà li danneggia di più”.
micol-hebronInstagram ha cercato di seguire l’esempio di Facebook, ma gli attivisti si sono adoperati anche su questo fronte: infatti, nel 2014, l’artista Micol Hebron ha creato un rendering di un capezzolo maschile, incoraggiando le donne a usarlo su Instagram per coprire i propri capezzoli, per richiamare l’attenzione su quanto sia ridicolo questo standard, con uno sforzo che ha guadagnato un rinnovato slancio nei mesi scorsi. 
Sono molte le celebrità che hanno abbracciato la causa e pubblicizzato lo slogan, soprattutto attraverso i social.
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Miley Cyrus è stata una delle prime celebrità a sponsorizzare la causa. Nel 2013, ha caricato su Twitter una sua foto contenente l’immagine di un capezzolo appoggiato sul proprio occhio e contrassegnata dallo slogan “Free the nipple”. Miley ha continuato a sostenere la campagna anche in maniera provocatoria, tramite la pubblicazione di foto in topless su Instagram (prontamente rimosse, ovviamente).
Intervistata da Jimmy Kimmel poco prima del debutto come conduttrice degli MTV Video Music Awards, si è presentata in studio con le areole coperte da due cuoricini tempestati di lapislazzuli. “Cosa pensa tuo padre quando accende la tv e ti vede così?” le ha chiesto Kimmel. “Beh, mio padre è un figo, preferisce che io sia una brava persona con le tette di fuori, piuttosto che una stronza con la maglietta. Se hai le tette di fuori non puoi essere stronzo” ha risposto Miley Cyrus. 

Anche Scout e Rumer Willis, figlie di Bruce Willis e Demi Moore hanno sostenuto questa campagna. Nel 2014, Scout Willis veniva immortalata mentre camminava per le strade di New York City in topless dopo che Instagram aveva rimosso una delle sue foto dal profilo.
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Tutti dicono che la politica deve essere uguale per tutti“, ha detto nel 2014. “A quanto pare, però, è OK per le donne di essere degradate e ipersessualizzate, ma non è bene per loro essere orgogliose dei loro corpi“. Rumer Willis ha sostenuto la sorella con una raccolta fondi subito dopo. “Sono molto orgogliosa di lei, si sta battendo per quello in cui crede”, ha detto a US Weekly, indossando una T-shirt a tema con l’immagine di seni nudi. 
Anche altre celebrità, tra cui Cara Delevingne, Chelsea Handler e Chrissy Teigen, hanno aderito alla causa esponendo i propri capezzoli sui social media. Non solo. Persino la deputata islandese Björt Ólafsdóttir si è schierata a favore della campagna. 

Recentemente anche l’ex modella Naomi Campbell ha postato su instagram una sua immagine in versione total nude con le areole scoperte, usando l’hastag #FreeTheNipple e aderendo a sua volta al movimento.

Cara Delevingne, #FreetheNipple
Cara Delevingne, #FreetheNipple 
Non ci sono solo donne tra gli attivisti che hanno aderito all’iniziativa #freethenipple
L’attore femminista Matt McGorry (Orange is the new black, How to get away with murder) ha aderito con entusiasmo al movimento: “#FreeTheNipple riguarda il diritto delle donne di rivendicare ciò che i loro seni e capezzoli significano per loro, e non da come gli uomini e gran parte della società decidono ciò che significano le loro areole” ha scritto McGorry su Instagram.

Negli Stati Uniti sono tante le persone che stanno protestando: ad aprile, un gruppo di manifestanti ha manifestato per Venice Beach a Los Angeles per permettere alle donne di prendere il sole in topless. Il 23 maggio, più di 100 studenti si sono riuniti presso l’Università della California, San Diego, a sostegno di #freethenipple. Ad inizio agosto, 70 persone hanno protestato a Springfield, nel Missouri, in nome della causa. Non solo: i sostenitori di “Free the Nipple” si sono seduti in topless su Hampton Beach nel New Hampshire. 
Alcune sostenitrici indossano unTaTa tops“: si tratta di un “bikini modellato sul corpo femminile che dispone di un capezzolo su ogni coppa” che il suo creatore ha inventato come modo per sostenere il movimento.
free-the-nipple The inside drop 

“L’obiettivo della campagna è l’uguaglianza” afferma Lina Esco. “Questo è quello che dovevamo fare per spianare la strada all’uguaglianza, ossia farne parlare. Non c’è altro modo in cui le ruote starebbero girando a meno che ci fosse una scintilla, qualcosa di controverso. Questo è Free the Nipple

Il movimento è stato senza dubbio capace di coinvolgere le persone attraverso immagini sagaci e ammiccanti, bikini ingannatori, e magliette auto-censurate. Riusciranno i suoi sostenitori ad ottenere la modifica delle policies dei social networks di censura e un fattivo cambiamento culturale?
Solo il tempo potrà dircelo, intanto però la scintilla è stata innescata. Sembra altamente probabile che possa degenerare in una esplosione!

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Articolo originariamente pubblicato su Stream! Magazine