Tutte le donne di Prassagora

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Pride and Prejudice, Jane Austen

lunedì 27 ottobre 2014

PROCESSO CIVILE: come cambierà con il D.L. Giustizia Civile

Le novità del D.L. Giustizia Civile apportate al processo di cognizione

  
Commento al D.L. 12/09/2014 n. 132, G.U. 12/09/2014, n. 212
Documento Senato della Repubblica 23/10/2014 
Maxiemendamento sostitutivo del ddl n. 1612 di conversione del d.l. n. 132 in materia di processo civile




  Procedendo alla disamina dei quattro articoli inerenti al processo civile di cognizione, contenuti nel D.L. n. 132/2014 mi permetto un commento sulle implicazioni che tali norme a mio avviso comporteranno supportate dalla lettura dell'analisi critica svolta dal Prof. Tedoldi - Professore Associato di Diritto processuale civile nell'Università di Verona e Avvocato in Milano.

Per maggior chiarezza espositiva l'analisi è presentata per sezioni:

a. riduzione della sospensione feriale dei termini (art. 16);
b. dichiarazioni scritte dei terzi raccolte dal difensore (art. 15);
c. conversione dal rito ordinario in quello sommario(art. 14);
d. compensazione delle spese (art. 13).

Art. 16 - Riduzione delle ferie dei magistrati e degli avvocati e procuratori dello Stato:  L' art. 16, c. 2, del d.l. 132/2014 riduce a trenta giorni l’anno, dai quarantacinque previsti in precedenza, il periodo di ferie previsto per i magistrati, aggiungendo un articolo 8 bis alla l. 97/1979, contenente le norme sullo stato giuridico e sul trattamento economico dei magistrati e degli avvocati dello Stato.

Temo che la riduzione delle ferie dei magistrati non abbia granchè ad impattare sulla durata, ma soprattutto sullo smaltimento dei processi pregressi.

Avendo avuto modo di frequentare le aule di Tribunale e GdP, in modo particolare durante il mio tirocinio di affiancamento del Giudice nel suo impegno quotidiano ho potuto appurare che i tempi eccessivamente dilatati non si possono imputare alla pigrizia dei giudici, anzi; le cause a mio avviso vanno ricercate piuttosto nell'organico limitato (a dir poco) rispetto alla mole di cause avviate.

Con questa affermazione intendo riferirmi non solamente al numero di magistrati in servizio, anche se è di inopinabile evidenza il loro esiguo numero e la rarefazione dei concorsi avvenuta nel corso degli ultimi (ahimè troppi) anni precedenti, con conseguente blocco del turn over e della mancata sostituzione dei magistrati andati in pensione con nuovi giovani uditori.

La problematica dell'organico limitato e della mancanza di aggiornamento per l'utilizzo degli ausilii informatici riguarda anzitutto la categoria del personale giudiziario in particolare mi riferisco a Cancellieri e Ufficiali Giudiziari. Questo stato dell'arte è risaputo da chiunque abbia dovuto aver a che fare con gli uffici di Tribunali e di Giudici di Pace in particolare.

A mio modesto avviso le soluzioni potrebbero essere da una parte agevolare e ampliare i progetti di coinvolgimento di laureati e laureandi nelle discipline giuridiche per stage e tirocini che permetterebbero di sopperire in parte alla mancanza di organico senza appesantire le casse statali; dall'altra la riapertura dei concorsi per il personale amministrativo-giudiziario con il potenziamento degli addetti agli uffici.
La digitalizzazione dei processi, dei fascicoli d'udienza e delle sentenze, è certamente un grande e necessario passo nella direzione giusta per un acceleramento delle tempistiche, ciononostante senza un adeguato rafforzamento del personale questo non potrà essere sufficiente.

Mi pare doveroso mettere in evidenza che per la mia piccola esperienza modenese avvocati e magistrati collaborano ottimamente per cercare di ovviare alla mancanza di personale e la città di Modena è all'avanguardia dal punto di vista dell'adeguamento digitale giudiziario anche rapportato alla media nazionale.

Art. 15 - Dichiarazioni rese ai difensori

La norma abilita il difensore a raccogliere e produrre quali documenti in giudizio le dichiarazioni scritte di terzi, purché “capaci di testimoniare”, ch’è accezione più ampia della mera capacità d’agire nonché d’intendere e di volere, essendo “incapace” il testimone che sia portatore d’interesse attuale e concreto che lo legittimi a intervenire nella causa, a mente dell’art. 246 c.p.c. Non servirà per queste “dichiarazioni scritte”, che il legislatore ha almeno qualche ritegno a nominare testimonianze (neppure scritte), l’accordo delle parti e l’osservanza delle gravose formalità prescritte dagli artt. 257 bis c.p.c. e 103 bis disp.att. c.p.c., che codificano a tal fine un modulo ministeriale, approvato infatti con d.m. 17 febbraio 2010, non essendoci mai fine alla spirale burocratica in cui precipita il nostro ordinamento, anche nelle sue parti tradizionalmente più nobili, come il diritto processuale civile.

Basterà ora che l’avvocato attesti sotto la sua responsabilità (anche penale) il nome, il cognome, il luogo e la data di nascita, l'età e la professione, rapporti di parentela, affinità o dipendenza con alcuna delle parti oppure interesse  nella causa, certificando l’autografia della sottoscrizione, magari apposta su moduli precompilati da non si sa chi, nei quali si dovrà dar atto d’aver avvertito (ch’è un po’ meno di “ammonito”) “il terzo che la dichiarazione può essere utilizzata in giudizio, delle conseguenze di false dichiarazioni e che il giudice può disporre anche d'ufficio che sia chiamato a deporre come testimone”. Si ha, insomma e in effetti una testimonianza scritta completamente deformalizzata, che potrà entrare nel giudizio come documento (ovviamente osservando le preclusioni istruttorie), apparentemente senza necessità di corroborarla con deduzione di prova orale, articolando capitoli riproduttivi del contenuto della dichiarazione scritta, da sottoporre al teste nel contraddittorio con le altre parti (ciò che il prudente difensore farà comunque nelle istanze istruttorie), dacché la norma consente al giudice di chiamare anche d’ufficio a deporre come teste il terzo che abbia reso consimili dichiarazioni scritte al difensore.
Le quali vengono da tale norma affrancate dalla qualifica di prove atipiche che sin qui imperava, a significare tutto e nulla, assurgendo al valore – anziché di argomenti di prova ex art. 116, 2° co., c.p.c. o, se si vuole (ma cambia ben poco), di indizi da porre a base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti ex art. 2729 c.c., come si riteneva sinora – di prova liberamente valutabile, soggetta all’ineffabile libero convincimento del giudice di cui al 1° co. del medesimo art. 116 c.p.c., che tutto acquisisce e tutto valuta nella sua onnivora e teoricamente onnisciente cognitio, vigendo nel nostro processo civile l’irreversibilità dell’acquisizione probatoria, quale che ne sia l’origine, la fonte o la modalità d’assunzione delle prove (salvo macroscopica commissione d’illeciti nel procacciarsele).

In definitiva tutto s’annacqua e s’annebbia, insomma: se la produzione in giudizio di uno scritto proveniente da terzi, per giurisprudenza consolidata, soggiaceva al rispetto delle regole di esclusione previste dall’ordinamento per la testimonianza, nonché alla mancata contestazione della controparte della violazione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa, derivante dal non aver partecipato alla formazione della prova stessa, queste anomale, ancorché oramai tipizzate ex lege, “dichiarazioni scritte” di terzi raccolte dal difensore posson già valere quali testimonianze, tanto che il terzo va soggetto alle stesse sanzioni comminate per la falsa testimonianza (lo comprova l' avvertimento rivoltogli dal difensore qual nuncius legis), salvo che la parte contro cui vengon prodotte non s’affretti a contestarle specificamente per formazione e contenuto, esigendo che il dichiarante venga escusso innanzi al giudice e nel contraddittorio inter partes.

La provenienza della dichiarazione dal terzo però, essendo certificata l’autografia dal difensore, esigerà querela di falso per esser infirmata, analogamente a quel che si richiede per impugnar la firma apposta dalla parte e autenticata dall’avvocato nella procura ad litem, in calce o a margine dell’atto giudiziario.
L’estrinseco ha, dunque, efficacia di piena prova fino a querela di falso; il contenuto intrinseco è liberamente, ma specificamente, contestabile dalla parte avversa, che potrà peraltro dolersi, prima ancora:
  • della formazione della prova al di fuori del contraddittorio e d’ogni controllo giudiziale,
  • dell’inammissibilità della testimonianza perché vietata dall’ordinamento (ad es., ai sensi degli artt. 2721 ss. c.c. e 1417 c.c. sul divieto di prova testimoniale in materia di contratti e di simulazione),
  • dell’incapacità ex art. 246 c.p.c. o, infine,
  • dell’inattendibilità del terzo dichiarante, e via discorrendo, producendo semmai, nel termine per la deduzione di prova contraria, controdichiarazioni scritte di terzi, in un giuoco a somma zero (non più vigendo l’inveterata regola unus testis nullus testis).
E non è certo pensabile che il giudice, così sollecitato dalle contestazioni s’acqueti a una dichiarazione scritta sulla cui origine nulla sa, se non quanto a provenienza, dati anagrafici, rapporti del terzo con le parti, tutti attestati dal difensore nell’esercizio di munus publicum assegnatogli dalla norma: dovrà dunque disporre l’audizione in praesentia del terzo dichiarante, divenuto finalmente teste toto caelo, come può fare peraltro anche d’ufficio e a prescindere dalle contestazioni di parte, giusta esplicita previsione contenuta nell’ultima parte del nuovo art. 257 ter, 2° co., c.p.c.

Nelle cause contumaciali potrà forse omettersi l’audizione orale: ma il contumace che appelli ben potrà esigere che codesti terzi dichiaranti vengano escussi come testi in seconde cure e nel contraddittorio, non applicandosi al contumace, de iure condito, l’onere di specifica contestazione che, a norma dell’art. 115, 1° co., c.p.c., vale solo per le parti costituite.

È appena il caso poi di segnalare come la frettolosa e infelice norma discorra soltanto di “fatti rilevanti ai fini del giudizio”: occorre, però e innanzitutto, che la prova testimoniale sia anche ammissibile, cioè non vietata quoad obiectum da norme di legge (ad es., i testé ricordati artt. 2721 ss. e 1417 c.c. in materia contrattuale), non potendosi certo aggirare codesti divieti mercé le anodine dichiarazioni scritte di terzi rese al difensore, di cui veniam discorrendo.

La norma è già vigente dal 13 settembre 2014 e, mancando  d'ogni disciplina transitoria, si applica anche ai processi pendenti, purché ovviamente non siano maturate preclusioni istruttorie, ché indietro non si torna (salvo causa non imputabile, che non può certo consistere in questo ius superveniens: ma è espressione fin troppo nobile per norma siffatta).
È infine prevedibile che la testimonianza scritta su accordo delle parti e su moduli ministeriali ex artt. 257 bis c.p.c. e 103 bis disp.att. c.p.c. vada in soffitta o, meglio, traslochi al piano inferiore, adoprando i difensori, in facsimile, moduli ministeriali autenticati da loro, anziché dal pubblico ufficiale normalmente richiesto per la testimonianza scritta.

La “deriva” delle prove nel processo civile italiano e l’indifferenza per la ricostruzione dei fatti – che teoricamente concernunt medium causae, ma che vengono sempre più inventati, deformati, acquisiti per interposta persona, stiracchiati, adattati a precostituiti convincimenti, senza alcuna preoccupazione di fedeltà al dedotto e al provato – paiono ormai irreversibili, nella declinazione decisionista, anziché cognitivista, che vien data al c.d. “giusto processo”.

Art. 14 - Passaggio dal rito ordinario al rito sommario di cognizione
 Si rinviene un nuovo art. 183 bis c.p.c., intitolato “Passaggio dal rito ordinario al rito sommario di cognizione”, che regola la conversione del rito da ordinario a sommario, a canone inverso rispetto a quel che prevede l’art. 702 ter, 3° co., c.p.c., quando le difese svolte dalle parti richiedono un'istruzione non sommaria, nei casi in cui l’attore abbia ab initio proposto la domanda giudiziale in forme sommarie.
Provando a schematizzare sinteticamente il contenuto della norma:
  1. occorre che si tratti di causa devoluta al tribunale in composizione monocratica, cioè esulante dai casi riservati a decisione collegiale di cui all’art. 50 bis c.p.c. o in altre leggi speciali;
  2. varrà solo per il rito ordinario (non per quello del lavoro o locatizio) e solo dinanzi al tribunale (non dinanzi al giudice di pace, che segue già un rito semplificato);
  3. la conversione, compiuti gli adempimenti di cui ai primi cinque commi dell’art. 183 c.p.c., andrà disposta nella stessa prima udienza di trattazione e non oltre questa, osservando il contraddittorio tra le parti, alle quali la questione inerente alla semplicità della trattazione e dell’istruzione va doverosamente sottoposta prima di provvedere (anche a norma dell’art. 101, 2° co., c.p.c.), con eventuale (ma indesiderabile) scambio di memorie autorizzate soltanto su tale punto e, in tal caso, ovvio rinvio dell’udienza di trattazione (fermi gli adempimenti e le preclusioni di cui ai primi cinque commi dell’art. 183 c.p.c.); assai generico presupposto della conversione è una valutazione giudiciale di ridotta complessità della lite e dell’istruzione probatoria, secondo un metro inevitabilmente discrezionale e subiettivo, che dipende da preparazione, capacità, prontezza di spirito, carattere (decisionista o meno) nonché, anche se la legge non lo dice, dal carico dei ruoli del singolo giudice; in linea di massima, la conversione verrà disposta:
    * quando la causa sia interamente documentale e la mole dei documenti non sia eccessiva, né vi siano disconoscimenti che esigano apposita istruzione probatoria (salvo che le prove sull’autografia non siano schiaccianti e non basti una rapida CTU grafologica per rimuovere ogni dubbio);
    *quando occorrano poche e circoscritte prove costituende ovvero una CTU, più o meno rapida: molte cause possono essere risolte anche soltanto con l’apporto della CTU, talché indugiare nelle lungaggini del rito ordinario in nulla gioverebbe alla migliore e più ponderata soluzione del caso;qualora il giudice monocratico opti per il rito sommario, disporrà la conversione in quel rito con ordinanza non impugnabile, proseguendo il processo secondo le altrettanto generiche indicazioni di cui all’art. 702 ter, 5° co., c.p.c., id est: “sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti in relazione all'oggetto del provvedimento richiesto e provvede con ordinanza all'accoglimento o al rigetto delle domande”;
  4.  quanto alla deduzione dei mezzi di prova riservati alle parti, pei quali non son maturate preclusioni nella pregressa fase celebrata con rito ordinario (ché i termini ex art. 183, 6° co., c.p.c. ancor non erano stati assegnati), il giudice le invita indicarli e a produrre i documenti nella stessa udienza, “a pena di decadenza”; se richiesto, convertito il rito, può fissare una nuova udienza e termine perentorio non superiore a quindici giorni per l’indicazione dei mezzi di prova e la produzione dei documenti, nonché successivo termine perentorio di ulteriori dieci giorni per le sole indicazioni di prova contraria, così replicando “in sedicesimo” e con dimezzamento dei tempi, le memorie di cui ai nn. 2 (ultima parte) e 3 dell’art. 183, 6° co., c.p.c.;
  5. la causa, terminata l’istruzione “sommaria”, verrà decisa nella forma semplificata dell’ordinanza, appellabile entro trenta giorni dalla comunicazione integrale, in applicazione dell’art. 702 quater c.p.c., con possibilità di dedurre nuove prove e produrre nuovi documenti se il collegio d’appello li ritenga “indispensabili” o la parte dimostri d’esserne decaduta per causa non imputabile, nonché esenzione dal “filtro” in appello, ex art. 348 bis, u.c., lett. b, c.p.c. (non però dal vincolo della “doppia conforme”, ai sensi dell’art. 348 ter, u.c., c.p.c.).

Non pochi problemi di legittimità costituzionale, per disparità di trattamento (art. 3 Cost.) e lesione del diritto di difesa e del giusto processo “regolato dalla legge” (artt. 24, 2° co., e 111, 1° e 2° co., Cost.), pone il descritto potere del giudice, convertito il rito in quello sommario, d’invitare le parti a indicare in udienza mezzi di prova e a produrre i documenti “a pena di decadenza” ovvero assegnando due successivi termini per la deduzione della prova diretta e di quella contraria, ove richiesto, con formula apparentemente affidata alla mera discrezionalità giudiziale, ma che siamo inclini a leggere come potere-dovere, vincolato quando siavi istanza di parte in tal senso.
Una previsione siffatta è del tutto assente nel dettato dell’art. 702 ter c.p.c. sul rito sommario, tanto che ivi, vige solo la preclusione alle prove costituende derivante dal principio di contestualità delle deduzioni istruttorie, laddove per i documenti, in assenza di precise norme di legge, non maturano barriere preclusive sino alla pronuncia dell’ordinanza conclusiva, mentre in appello vigono anche per questi i limiti dell’indispensabilità e della non imputabilità della decadenza, introdotti nel 2012.

L’aver ora previsto che, convertendo il rito da ordinario a sommario, il giudice faccia scattare ad nutum e lì per lì una tagliola non risulta conforme a quel che normalmente avviene nel rito sommario, che come tale si svolga sin dall’inizio, né alla natura propria di un tal rito, improntata alla massima semplificazione secondo i canoni dell’istruttoria cautelare (ché l’art. 702 ter, 5° co., altro non è che riproduzione, con diverse espressioni verbali, dell’art. 669 sexies, 1° co., c.p.c. sul procedimento cautelare uniforme) ed anche secondo i criterii della delega sulla semplificazione dei riti e del decreto attuativo di questa (art. 54 l. 69/2009 e d.lgs. 150/2011).
Né si potrebbe importare dal nuovo art. 183 bis al rito sommario ex art. 702 ter c.p.c. codesta improvvisa barriera preclusiva istruttoria: le preclusioni hanno natura eccezionale rispetto a un garantistico principium libertatis e non sono suscettibili d’applicazione analogica.

Neppure si comprende quale beneficio tragga il giudice dal convertire il rito per far risparmiare alle parti, sì e no, un paio di mesi mal contati rispetto ai termini di cui all’art. 183, 6° co., c.p.c. (sempre che non passi un’interpretazione, qui fortiter avversata, che lasci il giudice arbitro di decidere se assegnare o meno i termini ad ambedue le parti per deduzioni istruttorie e produzioni documentali, nonostante la richiesta formulata in tal senso da almeno una parte, facendo scattare la ghigliottina istruttoria direttamente e immancabilmente all’udienza, non foss’altro che per toglier presto il fascicolo dalla scrivania e dal suo ruolo, in ossequio ai criterii puramente quantitativi di misurazione del produttivismo giudiziario). Anche se proseguisse nelle forme ordinarie, il giudice ha tutti i poteri per ridurre liste testimoniali ed escludere prove sovrabbondanti, assumendole in forme piuttosto semplificate (anche mercé le obbrobriose dichiarazioni scritte dei terzi di cui si diceva più sopra), mentre la sentenza con motivazione contestuale, a seguito di sola discussione orale (più apparente che reale per prassi invalsa) ex art. 281 sexies c.p.c., ben poco si differenzia dall’ordinanza sommaria ex art. 702 ter, 5° co., c.p.c., stante la concinnitas ormai imposta alla motivazione d’ogni provvedimento decisorio (artt. 132, n. 4, c.p.c. e 118 disp.att. c.p.c.).
In conclusione, per gli attori converrà intraprendere ogni causa riservata a decisione monocratica del tribunale con il rito sommario: daranno dimostrazione di forza e di piena convinzione sui proprii mezzi e sull’evidenza delle proprie ragioni; oltre a ciò risparmieranno, oggi, la metà del contributo unificato. E, se proprio il giudice non sia del medesimo avviso, subiranno la conversione del rito in quello ordinario, doverosamente integrando il contributo (non sia mai…), ottenendo i termini ex art. 183, 6 co., c.p.c., animo laeto per non aver corso il rischio d’incappare nella tagliola ad nutum prevista dal nuovo art. 183 bis c.p.c., nella quale potrebbero imbattersi, come quando si passeggia in un bosco tenebroso, se per ventura avessero intrapreso la causa con il rito ordinario.

La norma varrà per i procedimenti introdotti dal trentesimo giorno successivo alla conversione in legge del d.l. 132/2014, secondo usanza invalsa nella Costituzione materiale del nostro tempo: il che fornisce chiaro e auto-evidente segno d’insussistenza dei requisiti di cui all’art. 77, 2° co., Cost., giusta il quale il Governo può bensì emanare decreti-legge, ma solo in casi straordinarii di necessità e d'urgenza, che chiaramente impongono la vigenza immediata, per non dire istantanea, della norma coniata come urgente.
Da quel giorno il rito sommario prenderà forse il posto del rito ordinario, come non è avvenuto sinora, nel lustro dell’applicazione dal 2009 a oggi: e si verificherà, il sopravvento di forme processuali sempre più scarnificate e ridotte ai minimi termini, con aumento esponenziale e incontrollato della discrezionalità del giudice anche sulle forme del procedimento. Tutto questo per inseguir vanamente la sterile e superficiale frettolosità dei nostri giorni, laddove il processo è per definizione luogo di ponderata lentezza, dove si ricostruiscono e valutano i fatti con la dovuta attenzione e si decide dopo aver meditato su questi e sulle norme applicabili.
Ma di tempo gli operatori del processo italiano non ne hanno, gravati come sono da fascicoli, cartacei ed ora anche telematici, che diluviano da ogni parte, nella scarsità delle risorse e nel deserto organizzativo, affidato solo alla buona volontà dei singoli.

Art. 13 - Modifiche al regime della compensazione delle spese 
Si tratta della norma con cui si modifica l’art. 92, 2° co., c.p.c. sul potere del giudice di compensare le spese.
È norma negli ultimi anni assai tormentata, quasi fastidiosamente “punzecchiata” dal Legislatore, già nel 2005-2006 vi fu una prima novella; un’altra nel 2009; siamo alla terza nell’arco di meno di un decennio.

Il testo attuale consente al giudice di compensare, in tutto o in parte, le spese del processo, “se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione”. Si vuole ora eliminare ogni forma di discrezionalità, che troppe volte veniva e viene ancor oggi, nonostante il testo trascritto, male adoperata, causa formule stereotipate di compensazione delle spese per “giusti motivi”, secondo il vecchio dettato dell’art. 92, 2° co., c.p.c. (ante 2006).

La parte che ha ragione deve ottenere, per quanto possibile, tutto quello e proprio quello che le viene riconosciuto dal diritto sostanziale: le spese di lite servono a neutralizzare i costi del processo, garantendo alle parti di ripristinarle nella situazione in cui dovevano trovarsi all’inizio di questo.
Quanto poco ciò sia vero nell’esperienza quotidiana del nostro processo è inutile dire: basti solo ricordare che nel processo inglese, chiuso il trial, vi è una fase apposita dinanzi a un ausiliario di giustizia che, nel contraddittorio tra le parti, liquida i costi del processo, in verità ingentissimi e spesso persino esorbitanti la materia del contendere, a favore della parte vittoriosa, anziché emettere una frettolosa e distratta pronuncia accessoria in calce al dispositivo, talora senza neppure richiedere o guardare né verificare le note spese.

Senonché, la modifica introdotta con il d.l. 132/2014, che andrà anch’essa in vigore per i procedimenti intrapresi dal trentesimo giorno successivo alla conversione in legge, non è felice, lasciandosi preferire la formola oggi vigente.
La novella vuole escludere ogni discrezionalità giudiziale, tipizzando e riducendo a tre le ipotesi di compensazione:
  1. per soccombenza reciproca, la quale non consiste nella riduzione del quantum debeatur preteso dall’attore, ancorché in misure esorbitanti rispetto al decisum, dovendosi liquidare le spese di lite a carico del soccombente in misura proporzionata alla somma statuita come dovuta, piuttosto che avendo riguardo a quella richiesta (dal che deriva una riduzione dei compensi liquidabili per minore scaglione di valore);
  2. per novità della questione trattata (legge nuova o quaestio mai dibattuta in passato);
  3. per mutamento della giurisprudenza, ch’è sottospecie della novità della questione, di cui alla precedente ipotesi: è il c.d. overruling, molto in voga da che la giurisprudenza delle corti supreme tende ad atteggiarsi, anche nel nostro sistema di civil law, quale fonte del diritto, pur negandolo sul piano teorico.
Tramonta però, col nuovo testo, ogni possibilità di compensare le spese per quei “giusti motivi” (o gravi ed eccezionali ragioni, che dir si vogliano) che sono indeterminabili a priori e che non possono che restare affidati, con le doverose cautele e un minimo di motivata spiegazione, alla discrezionalità del giudice, in un campo come quello processuale, nel quale l’incertezza nella ricostruzione e nella valutazione dei fatti, la debolezza d’una delle parti, la natura strettamente personale dei rapporti, l’andamento stesso della lite, gli atteggiamenti anteriori a questa consiglino di non gravare il soccombente con quella che è una sanzione collegata al processo, quando appaia iniqua o eccessiva.
Il diritto e il processo non si formano, né spiegano, né applicano secondo precostituito esprit de géométrie, ma sempre facendo uso di esprit de finesse: ogni rigidità va bandita, pena il tradimento dell’autentico esprit des lois.

L’art. 92, 2° co., c.p.c., nel testo novellato del 2014, soffre di un difetto opposto a quello che affligge il nuovo art. 183 bis c.p.c.: quello di esser troppo e inutilmente draconiano nel dettare una tassativa trilogia di fattispecie di compensazione delle spese del processo, senza lasciare margini ad una discrezionalità giudiziale in materia di spese, che è giusto sorvegliare, ma sarebbe iniquo cancellare del tutto.

La norma più importante in materia di processo di cognizione, si trova scritta, però, nell’art. 17 d.l. 132/2014, inserita nelle modifiche su tutela dei crediti, esecuzioni forzate e procedure concorsuali.
Si parla della previsione, tradotta mediante due nuovi commi in calce all’art. 1284 c.c., secondo cui, se le parti non ne hanno determinato la misura, da quando ha inizio un procedimento di cognizione, giudiziale o arbitrale, il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, con trasparente rinvio all’art. 5 d.lgs. 231/2002.
Quali che siano la natura (di valuta o di valore) e il titolo del credito (contrattuale, da contatto sociale od extracontrattuale), non appena venga proposta domanda giudiziale, maturano interessi legali a un saggio di gran lunga più elevato rispetto a quello legale, oltre che dei rendimenti normalmente reperibili sul mercato finanziario in questo lasso di tempo (nel quale i tassi ufficiali sono pressoché azzerati).

Pur apprezzandosi la volontà di contrastare i ritardi nei pagamenti, costringendo i debitori a offerte reali del dovuto (anziché puramente verbali, come quelle che si leggono nell’art. 91, 1° co., seconda frase, c.p.c. ai fini delle spese di lite), potrebbero verificarsi pratiche speculative da parte di chi, avendo una controparte “dalle tasche profonde” e non necessitando di un rapido incasso delle somme, preferisca lasciar durare la causa il più possibile, così ricavandone un agio tutt’altro che disprezzabile.
Ma sono pratiche elusive inevitabili a priori e ineliminabili da qualunque norma: questa è, probabilmente, una delle poche novelle potenzialmente utili che si rinvengono nel d.l. 132/2014, che non necessita oltretutto d’applicazione e impegno particolari, ad opera di ormai esausti ufficii giudiziari.


Bibliografia essenziale:
- testo integrale D.L. n. 132/2014;
- A. Tedoldi, il Processo civile di cognizione: le novità del D.L. Giustizia civile, il Quotidiano giuridico, 24/10/2014, (http://www.quotidianogiuridico.it)

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